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Marco Simoncelli, la fidanzata Kate: «Le mie labbra sul tuo casco»



C'era un momento, sulla griglia di partenza, solo nostro. Era poco prima dei semafori, quando andavano via le telecamere vicine, e tutte le moto intorno, la sua compresa, sgasavano già. Io chiudevo l’ombrello parasole. Gli prendevo la testa tra le mani e lo salutavo con un bacio. Un bacio sul casco. Così andava a correre». Il circuito di MotoGp in Malesia, domenica 23 ottobre, non aveva fatto eccezione. Non l’aveva fatto il caldo dei 40 gradi, che con i motori accesi in pista aumentava, e che Marco soffriva dentro la tuta, in cui aveva messo un po’ di ghiaccio. 
C’erano le labbra di Kate, sul casco rotolato via nel prato di Sepang, al secondo giro di gara. 24 e 22 anni, ne avrebbero fatti cinque d’amore oggi. Ma nella villa della famiglia Simoncelli, a Coriano, oggi lei se ne sta rannicchiata su una sedia – la felpa bianca, gli occhi pesti, la gamba destra che non riesce a stare ferma – e prova a dare voce a quello che succede dentro quando si ha poco più di vent’anni, prima dell’estate si è trasformato un fienile in una casa dove vivere insieme e poi in autunno la morte arriva così, d’improvviso. E bisogna disdire l’ordine della cucina, e declinare al passato ogni verbo dopo il «noi». «L’hai visto capitare agli altri. Lo metti in conto. Ma non pensi mai davvero che possa succedere a te». 
L’abbiamo vista sulle Tv di tutto il mondo mentre si portava le mani giunte al viso...«Eravamo lì. Mia madre era concentrata sullo schermo, davanti al monitor nel paddock. Ha urlato: “Oh, no”, perché Marco stava rischiando di uscire di gara. Io mi sono voltata verso di lei: “Non urlare per niente”. Il tempo di rigirarmi, ed era scivolato via. Sono rimasta lì a pregare. A pregare che non mollasse. Mentre il padre, Paolo, è scappato da lui». 
Era una promessa, quella piccola fede che sta tormentando al dito? 
«No. L’ho comprata su una bancarella. Noi ci regalavamo altro. All’ultimo compleanno, lui arrivò con un quadro mosaico di nostre fotografie: noi in montagna, noi al mare, noi durante le gare. Agli anelli non abbiamo mai pensato. Chissà poi perché». 
Come vi siete conosciuti? 
«D’estate, a Riccione. Ero in vacanza con le mie amiche. Ci dicono: “Vi facciamo entrare gratis in discoteca, se ci aiutate a distribuire un po’ di volantini”. Da studentesse, risparmiare su quell’ingresso era un colpo grosso. Così, ci mettemmo d’impegno. Marco passava di lì con un suo amico, per caso».
Lui amava raccontare che la conquista fu una fatica. 
«Piombò a casa mia a Bagnatica, con la scusa che aveva cugini di Milano. Io lo presentai ai miei come un amico, perché avevo un “morosino” e lui mi faceva solo tanto ridere. Agli inizi non facevo che dirglielo: “Ma dove credi che andiamo, tu ed io? Non sei un tipo serio, e io lascio alla prima sbandata: dureremo due mesi”».  
Invece siete arrivati a scegliere i colori delle pareti. 
«Sì, rosse. Pensare che mi veniva a prendere fuori dal cancello, all’uscita di scuola. E aspettava che finissi di allenarmi a pallavolo giocando a calciobalilla al bar, con mio padre. Dopo il primo mese, non ho mai più pensato di lasciarlo. Mi bastava. Eravamo così felici per questo Natale».
Come mai? 
«La casa sarebbe stata pronta, e per la prima volta avremmo potuto trascorrerlo con le nostre famiglie insieme. Fino all’ultimo, lui faceva il pranzo con i suoi, e poi saliva a Bergamo. Quest’anno invece ci sarebbero stati i letti. E i piumoni per tutti».




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